Questa volta voglio parlarvi del mobbing, parola che viene spesso usata ma mai spiegata. In termini generali per mobbing si intende un complesso di atteggiamenti illeciti posti in essere nei confronti di un militare ( o di qualsiasi altro lavoratore) e consistenti in sistematici e ripetuti comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di violenza morale o di persecuzione psicologica. Dal mobbing può conseguire la mortificazione morale, l’isolamento e l’emarginazione del militare oltre che una grave lesione del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità. L’obiettivo del mobbing è spesso infatti quello di costringere il militare a chiedere il trasferimento ad altra sede o addirittura di indurlo al congedo. Il tratto distintivo del mobbing è quindi la condotta volutamente persecutoria e vessatoria da parte dei superiori, o pari grado, volta a emarginare ed estromettere il militare dalla struttura organizzativa.
Esempi di mobbing possono essere per esempio i comportamenti tesi ad escludere il militare dal suo “gruppo” di lavoro, i comportamenti tesi a sminuire il ruolo del militare nel “gruppo” di lavoro, affidamenti di incarichi dequalificanti o vessatori, trasferimenti illegittimi, illegittimi dinieghi di trasferimento, disparità di trattamento con i colleghi, ecc…
Gli elementi strutturali del mobbing sono quindi: 1) molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il militare con intento vessatorio; 2) evento lesivo della salute o della personalità del militare; 3) nesso di causalità tra le condotte subite e il pregiudizio all’integrità psicofisica del militare.
Ma attenzione, secondo parte della giurisprudenza (TAR Perugia, I, 24.9.2010 n. 469), “nell’esaminare i casi di preteso mobbing il giudice deve evitare di valutare la situazione solo dal punto di vista della vittima. Da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro (nel nostro caso i superiori gerarchici e i pari grado), pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica. Dall’altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve cioè sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato. Tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale.”
Fino a qui quanto affermato dal Tar Umbria sembra condivisibile, ma il Tar va avanti nella spiegazione affermando che: “Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall’interessato può essere quanto mai fuorviante.”
Anche il principio esposto in questa seconda è in astratto condivisibile a meno che non se ne abusi. E’ infatti ovvio che il mobbing vada valutato in base al tipo di lavoro svolto e che un po’ più di durezza in ambito militare o di Polizia sia comprensibile, a patto però che con la scusa della “necessità di durezza” in ambito militare o di Polizia non si cerchi di fare ricadere casi di mobbing all’interno di normali dinamiche lavorative.
Sia per i militari sia per gli appartenenti alle Forze di Polizia quindi provare il mobbing potrebbe non essere facile. Sempre dura la vita dei militari.
Come fa allora un militare a provare di essere vittima di un caso di mobbing?
Il militare deve provare: 1) i singoli comportamenti e/o atti perpetrati a danno del militare. Il mobbing deve avere delle basi oggettive, non basta cioè solo quanto è stato percepito dal militare perché altrimenti è evidente come la stessa condotta potrebbe essere mobbing se fatta nei confronti un militare molto sensibile e potrebbe non esserlo se fatta verso un militare più resistente alle vessazioni. 2) l’intento persecutorio da parte dei superiori gerarchici o pari grado. Le condotte devono essere conseguenza di un disegno persecutorio e quindi devono essere effettuate proprio per vessare e perseguitare il militare al fine di isolarlo ed emarginarlo; 3) il danno psicologico subito, che potrebbe sfociare anche in gravi forme di depressione o esaurimento nervoso; 4) il nesso causale tra le condotte subite ed il danno psicologico subito, la sofferenza psicologica deve cioè essere conseguenza diretta dei trattamenti subiti.
Quali sono i passi che deve compiere la vittima di mobbing per difendersi ?
Occorre in primo luogo riconoscere il mobbing e non cercare di minimizzare le vessazioni che si subiscono per cercare di sopportarle.
In secondo luogo non bisogna sottovalutare il mobbing e gli effetti che potrebbe avere a lungo termine su sé stessi. Sopravvalutare le proprie capacità di resistenza non porta a niente. Il mobbing è portato a “sfinire” il militare, indebolendo lentamente le sue resistenze psicologiche. Il mobbing non agisce velocemente ma lentamente, è come l’acqua che lentamente corrode la roccia, anche il militare più forte mentalmente non potrà resistere all’infinito, ad un certo punto crollerà psicologicamente. Da questo crollo potrebbero derivare problematiche psicologiche anche gravissime (depressioni, esaurimenti nervosi ecc..). Per questo, se è vero che in tutti gli ambienti di lavoro ci possono essere delle situazioni ambientali pesanti è anche vero che se si è vittima di un caso di mobbing resistere in silenzio è inutile e dannoso. Il mobbing è infatti fatto volontariamente.
Occorre poi prepararsi bene alla “battaglia legale” raccogliendo nel tempo le prove per dimostrare l’esistenza di tutti gli elementi necessari al riconoscimento del mobbing e che abbiamo elencato poco fa.
Occorre infine reagire contestando le condotte vessatorie sia tramite i procedimenti interni all’amministrazione di appartenenza sia, se necessario, anche in sede giudiziaria.
Avv. Giuseppe Di Benedetto